Chi abita i chiostri di Ferrara?
Oasi di verde, tra silenziose tradizioni e nuovi utilizzi comunitari
Parole e immagini di Martina Mele | Ottobre 2024
La perpetua ci accoglie con un gesto gentile e silenzioso, aprendoci le porte di un luogo sospeso nel tempo. Appena varcata la soglia, ci troviamo al cospetto di suor Gemma, incaricata delle visite. Ha in mano un piccolo annaffiatoio e, con movimenti lenti e precisi, sta bagnando le piante in vaso. Ci troviamo in una porzione del chiostro che una volta era all’aperto. Ora, però, le finestre opache schermano la vista verso l’esterno, trattenendo all’interno la quiete monastica.
Con una concessione inattesa, la perpetua ci permette una rapida occhiata al chiostro vero e proprio: al centro, un antico pozzo domina il giardino, circondato da siepi verdi e roseti che impreziosiscono il cortile. Le arcate del piano terra, un tempo aperte, sono state chiuse con finestre, riducendo la connessione diretta con l’esterno. Da una di queste finestre, intravediamo una suora che sbatte fuori un cencio e poi scompare, riaffermando la rigida clausura a cui le monache sono sottoposte.
Queste donne appartengono all’ordine benedettino e seguono il motto “Ora et Labora“, pregando e lavorando in silenziosa armonia. Il ritmo delle loro giornate è scandito da continue preghiere e dai lavori manuali: la cura dell’orto, la cucina, il cucito, il ricamo e la maglieria riempiono il tempo in una routine devota. Il Mattutino, la prima preghiera della giornata, risuona alle 4:50 del mattino, quando le monache intonano i canti gregoriani nel silenzio del monastero.
Al di fuori di questo luogo sacro, il mondo si muove con un ritmo frenetico. Il trambusto del traffico, il suono incessante delle notifiche e il chiacchiericcio degli studenti contrastano bruscamente con la quiete del monastero di Sant’Antonio in Polesine di Ferrara. Questo antico complesso è una vera e propria oasi in mezzo alla città, dove il tempo sembra essersi fermato.
Il chiostro è uno spazio architettonico carico di significato e storia. Il termine deriva dal latino claustrum, che significa serratura, chiusura, clausura. Il chiostro è uno spazio aperto al cielo, a pianta rettangolare, circondato da porticati sui quattro lati. È il cuore pulsante attorno al quale si sviluppano gli altri edifici del complesso monastico.
L’architettura del chiostro trae ispirazione dai peristili delle antiche case romane, ma ne muta la funzione, trasformandolo da semplice luogo di passaggio in un ambiente di raccoglimento, preghiera e meditazione. Al centro del chiostro, spesso, si trova un giardino verdeggiante, simbolo di purezza e armonia, dominato da un pozzo, fonte di vita e di sostentamento. Il chiostro, nella sua semplicità, è un microcosmo ordinato dove si incontrano i quattro elementi di luce, aria, terra e acqua, dando forma a uno spazio sacro e contemplativo.
I grandi complessi, come il Borgo di San Giorgio a Ferrara, un tempo comprendevano più chiostri e aree verdi. Oggi la struttura originale di quel grand convento è in parte conservata, con uno dei chiostri più vicini alla basilica perfettamente preservato, mentre del vecchio chiostro rimane solo un porticato, aperto al piano terra e chiuso al piano superiore.
Con il declino della vita monastica e la diminuzione delle vocazioni, molti complessi religiosi sono stati ceduti o riconvertiti, assumendo nuove funzioni. Nonostante la perdita del loro uso originario, si è cercato di mantenere intatta l’idea di comunità e raccoglimento che i chiostri rappresentano. Alcuni di questi spazi, come il chiostro di Casa Betania, dove un tempo i frati coltivavano l’orto, sono stati destinati a scopi sociali. Oggi ospita donne italiane e straniere in difficoltà, assieme ai loro figli, sotto la protezione della Caritas.
Anche il chiostro di Santa Maria delle Grazie ha subito una trasformazione. Oggi è frequentato dagli studenti dell’Ateneo, che passeggiano tra i quattro magnifici melograni, studiano o ripassano all’ombra dei portici. Nonostante il cambiamento, l’atmosfera di quiete e riflessione che caratterizza questi luoghi rimane intatta, permettendo a chi vi passa di respirare l’aria di un passato che sembra ancora vivo.
Intanto al monastero di Sant’Antonio in Polesine, ci troviamo davanti al coro delle monache. Il silenzio è interrotto soltanto dalle note delicate della cetra suonata da suor Gemma, che pizzica le corde con grazia e precisione. Le melodie si diffondono nell’aria, attraversando le tre cappelle affrescate con splendidi dipinti della scuola giottesca, veri gioielli artistici custoditi all’interno del monastero. Qui, gli scanni in legno scolpito adornano le pareti della grande stanza, e una grata divide le monache dai fedeli, simbolo di una separazione fisica e spirituale dal mondo esterno.
Separate dal mondo, ma vicine alla vita.
Martina Mele
Nata a Ferrara, classe ‘97. Co-fondatrice di DestinationFilm – APS, associazione che si occupa di cinema e teatro. Lavora come filmmaker e fotografa. È regista di “Das Meer” (2023), selezionato a Visioni Italiane e al Festival di Linz, e “Rapacità” (2024), in attesa della première mondiale.