Frutti artificiali… ma naturali

Tra gli scaffali di Unimi, 1700 esemplari tra design spontaneo e ossessione del vero

Parole di Giusy Palumbo | Immagini di Francesco Neri | Agosto 2024

Sferica, scatolata, appiattita, allungata, lobata. La sola descrizione della forma di una mela potrebbe riempire una pagina, descriverla tutta anche un libro. É Ilaria Mignani, docente della sezione di Coltivazioni Arboree del Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali dell’Università di Milano, a parlare di pomologia, la scienza che studia la conformazione morfologica di un frutto, non solo delle mele come si potrebbe fraintendere. La descrizione di una mela è una sorta di biografia, racconta da dove viene – le mele cresciute in montagna sono più allungate di quelle cresciute in pianura, per l’escursione termica diversa – e che sapore ha la polpa: croccante, fondente, farinosa.

C’è un posto a Milano, quasi sconosciuto e sicuramente sottovalutato, che custodisce centinaia e centinaia di frutti del passato, mele e pere in primis ma anche uve, ciliegie, pesche, fichi, prugne e nettarine (guai a chiamarle pesche noci). “Frutti modellati così vivamente dal vero da scambiarli coi naturali” diceva il suo creatore, Francesco Garnier Valletti, artigiano, pasticciere, ceroplasta, artista e scienziato. Di origini piemontesi, venne ingaggiato nel 1857 da Auguste Bourdin, vivaista savoiardo deviato al marketing, per realizzare i modelli artificiali di tutte le varietà di frutti. Il Museo della Frutta a Torino custodisce più di mille esemplari, dietro teche imponenti in stanze regie, dove Vittorio Gassman recitò Elegia del verme solitario di Ernesto Ragazzoni.

Della vasta produzione di Francesco Garnier Valletti sono testimoni altre quattro collezioni, di cui una si trova a Milano, alla sezione di Coltivazioni Arboree del Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali, in via Celoria 2. Si accede oltrepassando l’atrio interno e poi il viale, a indicare la direzione è il cedro in mezzo all’aiuola, circondato da quattro magnolie. A rendere possibile la visita è la professoressa Ilaria Mignani che, nel suo tempo libero, nella pausa pranzo e tra una lezione e l’altra, apre le porte degli armadi grigi che riempiono la stanza al primo piano, oltre la porta rossa. Non ci sono teche di vetro e legno intarsiato, né luci o orpelli museali, ci sono armadi che scricchiolano e mensole impolverate. La ragione è formale, oltre che economica. La collezione non è inserita nel sistema museale dell’ateneo, dunque non può accedere a fondi o bandi per la conservazione e l’esposizione. É questo il cruccio più grande della docente, prossima alla pensione senza aver visto un’adeguata sistemazione per la collezione. «Come volontaria continuerò ad esserci – racconta, mentre sistema un cavo fuori posto – e mi auguro di vederla ben collocata, la cifra necessaria sarebbe peraltro contenuta». Eppure a vederli, ad occhio nudo, con la premura di non sciuparli, questi frutti sembrano tesori, sia per la bellezza spontanea e superba che per il valore di testimonianza, di una biodiversità oggi perduta. Albicocca Sant’Ambrogio, ciliegia Garibaldi, duracina Cuore Grande, fico Fiorone di Lombardia, mandorle del Diavolo, pera Urbanista, e poi, a vincere su tutte, l’Apiola stellata – la mela che, vista in pianta, sembra proprio una stella – conosciuta già nel 1598. Tutti i frutti sono catalogati e riportano le etichette e i supporti originali, alcuni riportano il marciume, perché anche quello andava studiato e conservato.

«Oggi nessuno comprerebbe la frutta coltivata nel Cinquecento», chiarisce la professoressa Mignani. «Se abbiamo selezionato poche varietà è perché queste hanno dei vantaggi, basti pensare alla mela Golden, la più diffusa in assoluto, può stare in una cella frigorifera anche un anno, mantenendo le sue proprietà intatte. Ha un potenziale di conservazione unico». Anche sul marciume si sfata un luogo comune: «Lo dico sempre ai miei studenti, mai eliminare la parte marcia e mangiare il resto. La muffa rilascia tossine alcune delle quali fortemente cancerogene». Ogni frutto ha una storia, fino ad arrivare alla prima mela, quella del peccato, che viene liquidata velocemente: «non era una di questo genere, sarà stata una mela selvatica o una sorba». Se tutto sembra avere una spiegazione, c’è un segreto che custodiscono questi frutti: i semi. Durante la Seconda Guerra Mondiale, con i bombardamenti su Milano, qualche pezzo è caduto e si dice che rompendosi abbia fatto venire fuori anche i semi, a somiglianza del vero.

Professoressa Ilaria Mignani © Francesco Neri

L’ossessione di Garnier per la verosimiglianza, figlia della Torino positivista, è tale che per ricostruire la peluria che riveste pesche e albicocche polverizzò la lana, per la patina di uve e susine soffiò sulle creazioni ancora umide una polvere ottenuta pestando al mortaio ciottoli di fiume raccolti personalmente. Garnier, a differenza di Leonardo Da Vinci che usava materiali organici, ne usava anche minerali, come ad esempio la polvere d’alabastro sciolta nella cera alla gomma damar. Qui il segreto della sua tecnica, rimasto tale fino a quando, per caso, un operaio notò degli scatoloni pieni di libri che sarebbero andati perduti se non fossero stati aperti: contenevano gli appunti originali e i disegni, strumenti di lavoro e opere d’arte.

Si deve a Michele Del Lupo, allievo di Garnier e professore di botanica e zoologia, la pubblicazione del Manuale di pomologia artificiale, edito da Hoepli nel 1891. A Girolamo Molon, primo docente di Coltivazioni Speciali a Milano alla fine dell’Ottocento, il merito di aver studiato uno a uno i modelli di Garnier e di averli classificati e, letteralmente, accuditi. Dopo di lui il professore Tommaso Eccher se ne occupò e la professoressa Mignani ne ha preso il testimone da qualche anno. Un ritorno di attenzione sulla collezione c’è stato in occasione della Mostra Triennale Design Museum del 2010, con la curatela di Alessandro Mendini, affascinato dal design spontaneo dei frutti in cera, oggetti d’arte inconsapevoli. Nel 2015, durante Expo Milano, alcuni frutti sono stati esposti a Rho Fiera, all’interno del parco della biodiversità. Ed è questa la parola inevitabile di fronte a circa 1700 esemplari di frutti del passato, reliquie dal cuore dolce, in un’archeologia del gusto che non avremo più a meno che, e qui è fondamentale lo sguardo della scienziata: «Questo patrimonio deve servire a contrastare l’erosione della biodiversità, l’estinguersi continuo di specie e varietà. Studiare i geni serve, a ottenere nuove varietà, con caratteristiche di interesse, quali ad esempio miglior sapore e la resistenza alle malattie». E così si scopre che nel corso della storia alcuni frutti sono stati ingentiliti per dargli un sapore migliore, per ottenere dolcezza e resistenza.

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